Auto-indagine, balbuziente
È da tempo che non scrivo qui, come colta da balbuzie. L’intensità del momento, la sensazione d’impotenza, la percezione di una grande pressione e l’incertezza del vivere, che si fanno carne.
Più forte ancora è il sentire che, un preteso prima non abbia più continuità, che non posso mandare avanti le cose nel vecchio modo e tuttavia, di fronte al nuovo che preme, mi scopro balbuziente.
Gran parte di quello che ho pianificato a ottobre è finito nell’oblio di questo arresto di funzioni sociali, in particolare il lavoro di gruppo, in presenza, che io amo. Si va on line e tuttavia mi scopro riluttante di fronte ad un fermo che, in profondità, oltre a un’ostinazione di superficie chiede un fermarmi, interiore o meglio, il riconoscimento, di ciò che è e rimane saldo, nonostante tutto.
«Eppure devi darti da fare» – dice una voce interna, conosciuta. Voce che giorno dopo giorno riconosco come un’abitudine. È pur sempre solo una voce, un pensiero. È vera? È “mio” questa pensiero?
Lo ripeto a voce alta: «È vero? In cosa è più o meno vero di un qualsiasi altro pensiero? La vita mi prende inesorabilmente per mano, come le pare e piace.
Resto, colta da una sorta di balbuzie. C’è come una nuova lingua che preme di cui non conosco la traduzione. Certo il parlare è scorrevole, non mi manca la proprietà di linguaggio ed è anche vero che questa sorta di balbuzie richiede ascolto più che espressione.
Ed è in questo ascolto, in questa destrutturazione di una lingua conosciuta, di un dirsi noto che posso accompagnare coloro che si rivolgono a me, per riposare insieme in una finora ricacciata incertezza, come si caccia una mosca che ci cammina sul braccio o sul viso.
Di quel riposo c’è bisogno, nonostante l’affollarsi nitido dei pensieri. Posso, volendo – dobbiamo capirci – dargli il nome di meditazione o quell’odioso inglesismo-mindfulness, indagine di sé, auto-indagine, consapevolezza… Resto nel profondo, tuttavia, balbuziente. In ascolto di suoni che sgorgano come in una vuota grancassa.
Se è sicurezza di te che stai cercando quello che posso offrirti, ora, è la balbuziente benedizione dell’insicurezza. La benedizione, sì. Il sollievo che deriva dallo scoprire che essere sicuri di sé non è necessariamente essere vivi. Una vita spesa a diventare sicuro di un qualcuno che, solo per abitudine, ho imparato a chiamare “me”. Un me dato per scontato e mai realmente indagato.
Come ben detto in una farse che mi è venuta incontro, non a caso: “Una persona sicura di sé è un essere morto”. [J. Krishamaurti].
Questa insicurezza è così spaziosa da accogliere tutti quei momenti d’insistente e teneramente umano, bisogno di sicurezza.
Consumatori compulsivi di un’idea di felicità, di eterna giovinezza e di alte frequenze, abbiamo, alacremente, esteso, anche la loro ombra, che si staglia, ora, minacciosa. Finché un sogno è piacevole, mi scopro a voler prolungare il sonno. Quando si trasforma in un incubo, non vedrei l’ora di svegliarmi. A che punto sei?