Doni
“NELLA mia VITA ho RICEVUTO due grandi DONI. Il PRIMO è STATO la completa cecità (a otto anni)
Il SECONDO la DEPORTAZIONE nel campo di CONCENTRAMENTO a Buchenwald” (non ancora ventenne)
– Jacques Lusseyran, attivista e autore francese, cieco.
Cari amici, sono stati e sono giorni difficili quanto fertili.
Poche cose rendono ottusi e superficiali – pare – come questa continua e olistica sollecitazione alla felicità.
Se son felice e vivo esperienze positive, valgo.
Poche cose sono ben riuscite ai potentati del mondo come l’indottrinamento newage.
Il visivo ha assunto una falsa potestà come il valore indiscusso di ciò che appare.
Tra gli incontri fertili con la Parola, che quando incarnata fino in fondo è spiro-spirito, voglio condividervi questo.
L’incontro con queste parole del francese Jacques Lusseyran, che germinando hanno, a tempo debito – senza ricerca attiva – portato nuovi frutti:
«Nella mia vita ho ricevuto due grandi doni. Il primo è stato la completa cecità all’età di otto anni.
Il secondo la deportatazione nel campo di concetramento di Buchenwald». (non ancora ventenne)
Un destino sfigato, un destino pesante, negativo?
Abbiamo barattato la grandezza, la maestosità dell’invisibile con il senso materialista di un’imposta, pretesa felicità?
Siamo un po’ tutti alla ricerca di una vita leggera, facile, positiva, come dei palloncini gonfiati che non toccano terra?
Dalla sua autobiografia (disponibile in francese e in inglese):
«Vi era qualcosa che questa gente[la Gestapo] rispettava? Certamente né intelligenza, né coraggio.
«Qualcosa di più importante, di più essenziale?
«Se alla loro presenza dimenticavo la loro presenza, se dimenticavo tutto salvo quell’unica cosa che trovavo nel fondo più profondo del mio io, nell’intimità del mio mondo interiore, quello spazio in cui grazie alla mia cecità ero disceso e dove non esisteva altro che luce, allora le SS non aspettavano da me alcuna risposta, cambiavano tema».
Jacques Lusseyran fu almeno interrogato trentotto volte nei sei mesi di prigionia in isolamento, prima della deportazione.
Anche nel suo dire il linguaggio impone, inevitabilmente, delle limitazioni. Ci tengo allora ad aggiungere, dalle sue parole, una sorta di esemplificazione, rispetto all’uso del termine “io” – l’autore parla di “uno spostamento del centro da fuori a dentro”, grazie alla cecità, dove il dentro ha smesso di essere una PROPRIETA’ PERSONALE.
Quanta grandezza!
Si rivela, qui, l’urgenza di un inchino.