Il perdono e altri strascichi
Qualche giorno fa, durante un cerchio costellatorio (di costellazioni familiari, mediali, spirituali, evolutive, akashiche – e qui rincaro – o chiamatele come meglio vi aggrada), di fronte a quel primo, incerto farsi avanti, di qualche tema sentito – ridotto all’osso – come dico io, qualcuno ha scelto per incominciare a dirsi, la parola perdono. Il voler essere perdonati.
Il perdono, dunque, si è mostrato – di fronte a uno dei partecipanti – che ne incarnava la richiesta, come maestoso e implacabile, il perdono del giusto di fronte all’ingiusto, la mano santa che dispensa, dall’alto. Con neanche fin troppa malcelata arroganza.
Pian piano, nel dispiegarsi della costellazione che ne è nata, si è fatta avanti un’altra forma che la richiesta di ricevere il perdono – di darsi perdono – può prendere.
Quando vogliamo alleggerirsi della cosiddetta colpa sentita, spostandola su qualcun’altro, così, a caso. Ma non certo a caso. Quando speriamo che il perdono ricevuto possa liberarci dal peso che sentiamo, trasferendolo – sebbene senza saperlo e con la migliore delle intenzioni – su qualcuno che, almeno in parte, ne condivida la grevità. «Portalo con me» è la frase sottintesa, quando non è: «prendilo per me».
Che cosa accade quando una madre lo dice a un figlio? Quando il figlio si avvicina pronto a toccare con le mani aperte quelle della madre, affinché vi sia depositato quale lascito? Come può sentirsi il figlio?
Che cosa ha fatto il rappresentante del figlio per sentirsi meglio? Nel silenzio, senza aver ricevuto alcun ruolo esplicitato. Si è messo al fianco del padre. Io la chiamo “l’armonia del buon senso”.
E in quanto al perdono, con cui volentieri, di questi tempi, amiamo risciacquarci la bocca, ha parlato di sé in modo molto esplicito. Non può essere chiesto. Non può essere dato. Il prezzo, quando accade, son straschichi, che rendono strascicante chi chiede il perdono e chi si fa carico della pena di chi ne è in richiesta.
Perdonarsi? Come si può manifestare, se è dato, se riesce?
Imparare a portare quel peso, da soli, per intero, con responsabilità, con leggerezza. Fintanto che, forse, quella che chiamiamo “la nostra colpa” appare come l’attribuirsi un merito personale – sotto le spoglie del demerito – che mai è stato davvero nostro. E far posto per il senso di pace che ne deriva.