Incontro con un uomo ordinario
Al tempo, quando l’incontro avvenne, faceva parte di una ricerca impavida, entusiasta, graffiante come la giovinezza può essere. Che cosa poteva portare una donna, fresca nella sua smagliante e ribelle sensualità a chiedere informazioni sulla sessualità – sulla via della sessualità quale porta al divino – a un frate dell’ordine dei Servi di Maria?
Quella ragazza vestiva i colori dell’alba e del tramonto (era l’83 e l’arancione dei primi tempi stava lasciando gradualmente il posto al rosso, poi bordeaux, fucsia e magenta) e portava una collana al collo, un mala di 108 grani di legno di palissandro da cui pendeva la foto – incorniciata dello stesso legno – del suo amato Maestro. Quello del sesso e delle Roll Royce, come si accanivano a catalogare i media del momento l’impertinente e dissacrante figura di (al secolo) Bagwan Shree Rajneesh.
Qualcuno che condivideva con lei – imperterrita nella sua esplorazione dell’energia sessuale, l’energia della vita – tale indagine, le aveva parlato di un tale Servo di Maria (al servizio della (ma)donna?) che pareva saperla lunga sulla via alchemica a due vasi, il Tantra occidentale. Del resto il nuovo nome, ricevuto dal maestro, aveva il suffisso Ma come Madre. Anche il significato del nome spirituale per intero risuonava in sintonia: eterno amore.
Non ricordo se ci fu un appuntamento a precedere l’incontro. Vero è che Giovanni Maria Vannucci l’aspettava. Leziosa nei sui colori, in quel giorno d’estate, con spalle denudate in una profonda scollatura e gambe in bella vista sotto quella minigonna a gale, si presentò assetata di parole profonde.
Appena entrata nell’orto di quel convento di frati a Panzano in Chianti, chiese a qualcuno che le veniva incontro dove poteva trovare Padre Vannucci. «Sono io Padre Vannucci», rispose la figura piccola e composta, cingendo fraternamente con un braccio le sue spalle nude.
Giudizio? Animosità? Distanza? Freddezza? Neanche l’ombra. Accoglienza invece. Come due anime semplici cominciarono a parlare.
L’ascolto e la lettura della raccolta dei discorsi del Maestro (che ha assunto in un secondo tempo il nome di Osho) su i commenti ai vangeli apogrifi di Tommaso (the mustard seed – il seme della ribellione) aveva aperto la visione su un percorso alchemico, alle origini del cristianesimo, che coinvolgeva l’incontro sessuale tra l’uomo e la donna. Da lì si era rinnovata l’indagine sostenuta dall’impulso e dall’intelligenza del corpo.
Erano queste le domande che aprirono il colloquio con Giovanni Maria Vannucci. Esisteva un insegnamento al quale si riferivano coloro che mi avevano indicato la sua persona?
La sua prima risposta fu di riferirmi direttamente al Divino (e lo disse indicando il cielo) e che quegli uomini – attraverso i quali ero giunta a lui – erano uomini in cammino. Aggiunse, inoltre, di considerare la sessualità come il canto degli uccelli al mattino, come il profumo del caffè che giunge dalla cucina nell’ora della colazione.
Disse poi: «E, ricorda, tu sei una Virgo». Spiegando il significato di questa espressione – Vir-gheneo – generatrice di vero uomo. Aggiunse di far attenzione agli uomini che incontravo. «Sarebbe opportuno che essi assomiglino a Ulisse, a Achille, il quale rifiutò di tornare a combattere nella guerra di Troia finché non gli permisero di avere di nuovo al suo fianco la “schiava” Briseide».
Continuò dicendomi che di quegli insegnamenti si erano perse molte pagine e che la pratica conseguente poteva risultare mancante di supporto conoscitivo.
Parlarono anche del Maestro e di quello che stava succedendo in Oregon, nella comune di RajneeshPuram, esperimento a cui la giovane donna aveva preso e prendeva parte.
Nella comune la pratica più estesa era il lavoro(worship) quale forma di meditazione-devozione. Trovò l’esperimento congruente con l’ora et labora.
Nessuna critica o tentativo di portarmi su una qualche altra retta via. Mi lasciò andare con un sincero e benevolo sorriso sulle labbra. Quell’incontro fu l’unico. Un seme dimenticato nel percorso? Una risonanza appena abbozzata?
Un seme lasciato cadere in qualche angolo della terra dell’inconscio, non per questo trascurato. Anzi accudito, da una forza più grande, quella dello spirito.
Se mi si chiede che cosa abbia capito, ebbene non saprei dirlo, e ogni tentativo di capire abbandonato ha lasciato il posto a un movimento riconciliante, a una crescita. Quel seme è cresciuto insieme alla giovane donna, quelle parole hanno risuonato e risuonano dando forma e completamento a quell’indagine approfondita e praticata su diversi versanti. Quel seme preme di essere condiviso nella fioritura.
Diversi anni dopo scopro che un luogo a pochi passi dalle mie radici – la comunità d’incontro della Pieve Romanica di Romena – s’ispira alla parola di Giovanni Maria Vannucci. E molti dei sui insegnamenti, al tempo registrati, sono stati pubblicati proprio dalla Fraternità di Romena.
Li ho letti quei libri, a spizzichi e bocconi, per ritornarvi sopra spinta da incarnate comprensioni.
È il rigoglio di quel seme che mi spinge, ora, a scrivere, è un grazie a Vannucci, è il suo rispetto per la Donna a 360 gradi:
“[…] La femminilità appare nella storia delle religioni come figura divina le cui caratteristiche sono: generatrice della vita in tutte le sue manifestazioni (fisiche, psichiche, mentali); protettrice delle creature che ha generato; previdente per la sua particolare struttura mentale intuitiva e orientata verso il futuro; custode di un ordine strettamente aderente alla vita concreta. […] “Forse alle origini della civiltà occidentale, piuttosto che l’assassinio del padre dell’orda primitiva (Freud) c’è l’assassinio della madre. La grande madre fu trasformata in orca, in strega feroce, senza bellezza e amore, ma fatale come la fascinazione di un abisso oscuro e divoratore”. (Giovanni Vannucci, la parola creatrice, Cens).