La forza di una frase
C’è una frase in particolare che ha dato avvio dentro di me a un movimento di guarigione e ha portato più Vita nel mio vivere. Parlo di frase ma in realtà si tratta del suo effetto, rigenerante.
«Chiediti, le tue vie spirituali ti portano verso la vita o verso la morte?». Questa domanda, posta da Bert Hellinger a tutti i partecipanti – dopo una costellazione a un’imprenditrice – ha contribuito in modo ampio, per me, qualche anno fa, a un moto di recupero della salute, che mi ha accompagnato fuori da una malattia cronica debilitante.
Quelle parole mi hanno subito punta nel profondo, con una percezione chiara – fisica – di trambusto nel petto, quel qualcosa che fa salire le lacrime agli occhi.
Allo stesso tempo si creava spazio, come al crepare di un guscio, nell’aria ampia del plesso e del cuore, con quella punta di frizione quasi impercettibile che lascia in corpo la verità quando, senza saperlo, sai che lo è. Lo sai perché è scomoda, ma profuma di nuova libertà. Il sapore della verità che picca sull’anima, illuminando definitivamente il falso, il non vitale dentro di te, mentre annaspi per cercare di non sentire quel residuo fisso di paura di perdere l’appartenenza, di non appartenere, di tradire certi valori navigati per anni, per es. i valori della Sangha (la comunità spirituale) e del suo maestro. Regole inconsce a compensazione di ben più profonde fedeltà e legami che magari immobilizzano, chiudendo gli accessi al fluire dell’amore. L’amore generazionale, che è vita, sgorga come un fiume dall’alto verso il basso e se ti trovi in alto, pur non essendo sorgente, rischi l’aridità vitale.
Sì, anche gli alti valori della Sangha, possono a un certo punto diventare comode e fedeli toppe per vivacchiare, per sentirsi visti e riconosciuti. Possono diventare anche un modo per evitare la responsabilità di stare totalmente sulle proprie gambe, e incontrare la natura vera, adulta della solitudine. Alla fine possono mascherare una sorta di fedeltà nei confronti della famiglia spirituale e della sua guida – come quella che permette al bambino di sopravvivere e è garante della sua appartenenza – tanto da essere scambiata per devozione.
Ora so che l’unica devozione che devo a qualcuno è quella per la verità che sento bussare al mio cuore. È struggente di solito, gioia delicata, ha una vena di malinconia e il quieto cedere della vulnerabilità. Talvolta muove alle lacrime, lacrime di riconoscenza.
Quella frase è caduta in una terra profonda, ha lasciato cadere un seme. E quel seme, a mia insaputa ha seguito i suoi tempi di gestazione, di attesa e di resa. Accolto in pieno e dimenticato. Ci sono parole che sono feconde e ho avuto la fortuna di lasciarne entrare alcune di molto preziose.
Ed è anche vero che possono lasciarti gravida, con tutti i segnali gradevoli, grevi, caotici e impaccianti di una strana maternità non riconosciuta: certi dolori del corpo, le possibili nausee, la costipazione, la letargia come anche un senso di radianza diffusa, di espanso senso di grazia, di pienezza energetica.
Ho attraversato tutti questi stadi che mi hanno portato apparentemente lontana dal terreno della semina e allo stesso tempo verso le condizioni per prendermi cura del raccolto, di nuovo, senza intenzione e volontà diretta. Come funziona bene la Vita senza i nostri voglio e i ci provo!
Quel giorno ero andata per fare un’intervista a Bert e ho ricevuto una costellazione. Si trattava di una giornata aperta all’interno di un seminario e proprio nel dopo pranzo il tema dell’insegnamento era relativo alla salute e alla guarigione.
Alla fine guardandomi con un sorriso, che assomiglia a quello della gioconda, mi ha detto: «Ti ho fatto un dono ben più grande di un’intervista». Tornando poi subito in disparte, e prendendo le distanze da ogni sviluppo di ciò che si era per entrambi rivelato. Mentre fisicamente mi allontanavo per tornare al mio posto anch’io prendevo le distanze da ogni interpretazione, sollevata.
Da quel giorno non ho avuto più traccia di quel disturbo che mi ha accompagnato per ben nove anni, portandomi più volte dentro e fuori il pronto soccorso, in giro per visite specialistiche, provando vari esperti della salute e i loro rimedi, vari terapeuti e facilitatori nel campo olistico. Ognuno di loro, adesso so, ha contribuito a concimare un pochino quel seme, qualcuno ha dato un contributo massiccio dicendo che non poteva fare niente per me, a parte un breve trattamento fisiatrico. Ben poco altro avrebbe avuto la stessa forza di lasciarmi a tu per tu con la mia responsabilità.
Il movimento di guarigione era già maturo, come il frutto di quel seme remoto. Un frutto pronto per essere colto. E la costellazione ha assecondato la sua caduta. Molto era già successo, tra cui l’abbandono del mio lavoro. Oh no, non perché non funzionasse quello che lasciavo ero io che avevo smesso, da tempo, di funzionare, sorda ad una voce che mi diceva di andare verso, di guardare avanti, verso il nuovo, verso la vita. La vita guarda e va sempre avanti.
La malattia ha un suo compito sensato e si fa da parte quando quel compito è esaurito.
Pretendere di guarire aiuta? E lottarci contro?
Che cosa aiuta?
Affidarsi ai sintomi come a velieri in alto mare che cercano di ripristinare le coordinate di rotta. L’abbiamo persa dunque? Forse. Tuttavia questo ci sollecita a rigenerarsi e a spingersi verso rotte nuove. Verso la toccante realizzazione di quanto siamo interconnessi a livello generazionale e oltre, e dell’effetto di tale connessione sul nostro stato di salute e malattia.