Per Dono
Perdono, dall’etimo: riporre in grazia, obliando un’offesa
Mi chiedo talvolta da dove venga questa esigenza di perdonare, perdonare che cosa?
Nel bisogno di perdonare devo definire come offesa quella ricevuta, che qualcuno abbia di sua volontà fatto qualcosa contro di me, mi abbia volutamente danneggiato e che io giudice del danno, possa disporre del potere di definire, il suo, un atto da condannare per poi condonare. Da una posizione di diseguaglianza – potremmo dire io del giudice e l’altro del pregiudicato – elargire la mia grazia, attivare la comprensione del Giusto.
Ho quindi bisogno, prima ancora di pensare il perdono, di avvalermi di un parametro di giustizia.
Premetto che non sono impermeabile, me la prendo eccome e pure mi sento indignata – arrabbiata e addolorata – quando qualcuno a mio avviso mi ha fatto un torto o ha fatto un torto a qualcuno che mi è caro.
Conosco la reazione: ora gliela faccio pagare e il “volume” dell’altro e, di quella che chiamo la sua offesa, m’invade totalmente. I pensieri in modo ricorrente ritornano, come la lingua, a toccare il dente che duole, il legame diventa forte e sgradevole. Sono come posseduta e mi sento in diritto di fare da giustiziere.
Poi qualcuno mi propone il perdono. Che bella trovata! Posso liberarmi dal peso che porto e magari liberare l’altro, accogliendolo di nuovo nelle mie grazie – Figo!
Posso davvero?
No, fintanto che l’altro è per me in diseguaglianza, nel caso, manchevole; fintanto che l’eguaglianza con l’altro si apra nel cuore come esperienza diretta ovvero il prendere atto che non c’è in quel gesto un volontà separata, personale, che siamo uguali, sulla stessa barca, sullo stesso piano.
Se questo accade, se rinuncio in cuor mio a definire sbagliato, offensivo, biasimabile quel gesto, che bisogno ho di perdonare?
Posso davvero costruire il mio perdono, posso pretenderlo?
Mi par di no, quando accade è per Dono 😉